LORO NESSUNO LI HA VISTI
Che importa, caro Nino, anzi «nonno Nino», come negli ultimi anni ti hanno chiamato con tenerissimo affetto i giovani dei movimenti antimafia; che importa se non c'era nessuno del governo, nel momento del tuo addio al mondo? Che importa se nessuno di loro è venuto a salutarti, ha sentito il dovere di ringraziarti?
Di testimoniare davanti al popolo italiano che le ragioni o i valori ai quali hai dedicato una vita di prestigio e di dolore sono anche, in piccola parte, gli stessi di chi governa l'Italia? Nessuno di loro ha sentito l'impulso morale di prendere un aereo di Stato e venire a Firenze, convocare un'auto blu e dedicarti un pomeriggio. L'impulso di trattarti almeno alla stregua di un comizio, di un'apparizione televisiva, di un taglio di nastro, delle cose di ogni domenica, insomma. Nessun consigliere esperto e levigato e saggio ha suggerito a Roma di mandare almeno un rappresentante, magari il più ingenuo, il meno impegnativo, ad apparire per tutti, uno per tutta la affollata e festante foto di gruppo del governo. Altri sono venuti da ogni angolo di Italia, a loro spese, dedicando la giornata intera e anche di più al viaggio di andata e ritorno. Altri, ne ho incontrato un gruppo in treno, hanno superato ogni problema per venire a salutarti: dove mettere i bambini, dove andarli a riprendere, come attrezzarsi in caso di ritardo dei treni. Tanti, una volta lì, sentendo nell'anima la tua ultima presenza, sono stati presi dalla sensazione di infilarsi in un lungo, imprevedibile colloquio con il mistero della vita e della morte, ma anche con il mistero della speranza; quella che non bisogna mai perdere perché, come tu dicevi citando padre Davide Maria Turoldo, a volte «sperare è da eroi ma è impossibile non farlo». E hanno pianto, si sono tenuti per mano, accomunati dall'averti visto una volta, parlato, scritto, dall'essere stati incoraggiati da te, che dal tuo fisico di cartavelina, con le tue parole soffiate come petali delicatissimi, sprigionavi una forza morale senza uguali.
Non sono venuti. E hanno rotto una volta di più quella dignitosa ipocrisia che incolla gli opposti nelle democrazie. Francobolli e onori, quest'anno, non un secolo fa, ai tuoi «Giovanni e Paolo», morti ormai dieci anni fa. E nulla, assolutamente nulla a te che fosti il loro maestro, che li difendesti in vita dalle insidie romane, che li ricordasti per anni e anni come un sacerdote laico ovunque ti venisse richiesto. Perché non è vero che i morti possono essere sempre onorati. Onorare te oggi avrebbe avuto un significato forse dirompente: riconoscere quello che sei stato, non martire tradizionale; ma simbolo, con il fardello immenso che ti sei preso addosso quasi nell'età delle pensione, dello Stato che a volte svela senza scampo la sua natura di servizio e sacrificio e valore di tutti. Vien da ridere, scusami se mi permetto di dirlo qui, pensando a quello che hai fatto tu, quando si sente dire che lo Stato andrebbe gestito come un'azienda. Un' azienda... un'azienda e tu e Falcone e Borsellino... La legge uguale per tutti, il tricolore, i morti per la libertà. Sapranno mai, Nino carissimo, che cos'è lo Stato? E in più, tu, la tua toga sulla bara, eri il simbolo di qualcosa che essi in fondo hanno difficoltà ad accettare. Quella folla in chiesa stava lì a rappresentare una comunità umana larga e profonda, che ha fatto tutt'uno con il movimento antimafia. E tu lo sai quanto quel movimento abbia dato fastidio negli anni. Lo hai visto, perché lo hai seguito con amore quotidiano.
Gli sembrava impossibile, a loro dico, che non «facessimo» antimafia solo la domenica o una volta ogni tanto, ma che ci fossimo sempre. Perciò ci scaricarono addosso l'etichetta spregiativa di «professionisti dell'antimafia». Indicarono come «professionista dell'antimafia» anche il tuo Paolo, pronosticandogli perciò una abusiva e immeritata carriera. E tu ne toccasti la bara dicendo «è finito tutto» quando egli concluse quella sfolgorante carriera. Vedi, Nino, se fossero venuti avrebbero dovuto incontrare, attraverso di te, la realtà dell'antimafia. E l'antimafia è per loro una cattiva e intollerabile coscienza. Ricordi? «Signor giudice, se esiste l'antimafia, allora vuol dire che esiste anche la mafia». Lo disse Totò Riina. Ma lo disse anche Marcello Dell'Utri, l'amico più colto del capo del governo. Sono questi i segni degli ambienti, delle culture, delle persone, delle temperie storiche. Più di tutto, più di ogni altra cosa. Esattamente come - ne parlammo una sera - a qualificare il giudice Corrado Carnevale non erano tanto le accuse a lui rivolte e da cui ora i suoi colleghi della Cassazione lo hanno assolto, ma qualcosa di più piccolo, un terribile (e penalmente innocente) dettaglio: il fatto che in una telefonata intercettata egli avesse potuto parlare di uno dei tuoi «figli», Giovanni o Paolo, non ricordo, dandogli, dopo la morte, del fesso o del cretino.
Le civiltà si alimentano e si mostrano con i segni. E la civiltà di questi tempi, domenica scorsa, ha pensato di darne un altro, di segno. Perché ricordassimo senza ambiguità in che tempi viviamo. Perché neanche per un attimo ci dimenticassimo che davanti alla tua perdita avremmo dovuto stringere i denti, sapere guardare nel buio, come ha detto don Giuliano dall'altare. Che importa se non c'erano. In fondo il «buio» di oggi è fatto anche di ignoranza, di tenebre della memoria. Lo sappiamo, lo sappiamo bene, che quasi nessuno di loro conosceva la tua storia. Perché quando tu te ne stavi chiuso nella caserma della Guardia di finanza a Palermo, andato lì da Firenze a rischiare per tutti noi, loro erano quasi tutti chiusi nelle proprie aziende, immersi nei loro affari, e lì, tra una disinvoltura e l'altra, tempravano il loro futuro senso dello Stato. Te lo ricordi, nel '94, quel ragazzotto con l'Alberto da Giussano sul bavero, seduto in prima fila a Milano-Italia, che ti gridò «Stai zitto scemo»? Un'offesa come una frustata. Il mondo sapeva chi eri, ma lui no, non sapeva. Né il tuo nome, né la tua storia. Epperò era già addestrato all'insulto tanghero, figlio di quella pedagogia politica che avanzava sgomitando da una società smaniosa di prepotenza e di anarchia. Chissà da dove veniva, da quale biliardo, da quale piazzola di donne e di motori, per offrire all'Italia, o alla Padania, la sua nuova politica. «Stai zitto scemo».
No, il governo non ti ha detto la stessa cosa. Però è vero che fu il giornale dell'attuale capo del governo, o di suo fratello, che ti battezzò qualche anno dopo, in un indimenticato titolo, «Capoinetto». Fatte le proporzioni, non c'era molta differenza. Davvero che importa, Nino, se non sono venuti. Non hanno visto le due rose deposte sulla toga. Quella rossa, segno di dedizione e amore; quella bianca, segno di saggezza e di candore. Non hanno visto la passione e la speranza dell'Italia che tu hai rappresentato anche negli ultimi anni. Sempre più stanco e sempre più carico di preoccupazioni per il nostro futuro. La tua Italia, nonno Nino, quella che non si farà mettere i piedi in testa da nessuno.
Pubblicato sull’Unità di martedì 10 dicembre 2002 e contenuto nel libro “La legge sono io. Cronache di vita repubblicana nell’Italia di Berlusconi. L’anno dei girotondi” di Nando dalla Chiesa ed. Filema 2003